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martedì 19 febbraio 2013

Traumi post-esordio

Va bene, è stato pubblicato on-line il mio primo racconto (se vuoi perdere un po' di tempo, se per oggi sei già stato/a a lavoro in palestra e al bar con gli amici, se è la tua serata libera, insomma: se proprio non c'hai di meglio da fare, tipo metterti su una moka per svegliarti un po' o farti una doccetta che non è mai una cattiva idea... però, se l'hai appena fatta, meglio optare per il caffè e non sprecare acqua, che già ce n'è poca... e se hai pure preso il caffè da poco, niente, ti tocca leggere il mio racconto che, come volevo dire fin dall'inizio, se proprio non c'hai di meglio da fare, tipo la moka o la doccia, il bar o la palestra - il lavoro forse è più difficile di 'sti tempi, mal comune mezzo gaudio non è vero manco per niente, ma ti esprimo la mia solidarietà - dunque, se proprio oggi non sei in vena di fare niente di più edificante - o anche meno - allora il mio racconto lo puoi trovare qui). Già ho detto una cazzata, comunque, perché non è il mio primo racconto. Ne ho scritti un po' (pochi completi, alcuni solo cominciati e abbandonati) e questo qui è semplicemente il primo che ho deciso di provare a pubblicare on-line (ovviamente su un sito che non fosse il mio blog, che sennò non vale). - Ci tengo a precisare che se avete aperto il link e c'avete visto quella bella immagine dei treni... bè, quella ce l'hanno piazzata loro, quelli del blog-associazione culturale ConAltriMezzi. -
 
Genesi del racconto (a chi non interessa può saltare direttamente al paragrafo successivo): infra la settimana - la date precisa fa poi lo stesso... poniamo due mesi fa? più o meno -, allora durante la settimana tal-dei-tali avevo deciso che tra sabato e domenica avrei scritto un racconto da mandare a qualche blog-rivista letteraria on-line per vedere se me lo pubblicavano. Tra sabato e domenica ho scritto veramente il racconto. La storia nasce - visto che chiunque legge si fa 'sta domanda benedetta: ma la storia è autobiografica??? Che comunque, gente, ci tengo a dire che è una domanda un po' infantile... cioè da lettore poco evoluto e poco scafato... che più o meno tutto quello che viene scritto c'ha un po' di autobiografia mischiata a un po' di sana e totale invenzione -, ebbene la vicenda raccontata, del ragazzo marocchino che prende il treno senza timbrare il biglietto (eeh lo so, chi non ha letto il racconto è un po' penalizzato... a sto punto consiglio un altro post o addirittura un altro blog, se proprio non c'avete niente da fare!), è successa sul serio. E sto ragazzo si è seduto in diagonale di fronte a me (io sarei quella che nel racconto dormiva, o faceva finta di). E poi è arrivato sul serio il controllore e sul serio si è verificata la scena del giornale (che non mi ricordo se fosse effettivamente Il Corriere dello Sport). Il resto è fantasia.
 
La cosa interessante (e questo lo dico anche per chi non ha letto il paragrafo "genesi" eccetera... insomma, il paragrafo precedente) è che io ho deciso di scrivere un racconto nei tali due giorni e l'ho fatto - ok, poi mi sono data una settimana o due per farlo riposare, poi l'ho ripreso in mano, poi l'ho corretto, eccetera. Cioè capite: non c'è stata l'ispirazione dall'alto, HO DECISO. - Per inciso, la decisone aveva un fine meramente (e bassamente, se volete) pratico: volevo scrivere un racconto e pubblicarlo on-line su un qualche sito che non fosse il mio blog. E volevo farlo per registrare la cosa sul mio curriculum. - Lo so, sto demolendo passo-passo le vostre migliori fantasie sui vostri scrittori preferiti. Lo scrittore ispirato, lo scrittore che ascolta una vocina interiore, lo scrittore che risponde a una esigenza comunicativa. Scrittore, appunto. Io non sono uno scrittore - neanche una scrittrice, non facciamone una questione di organi sessuali, dai, siate intelligenti! - Ho velleità scrittorie e punto. E purtroppo-per-fortuna non credo tanto nell'ispirazione (mi sa che l'ho già scritta questa cosa... ma credo non in questo blog... sennò saltate alla frase successiva). Perdio, mi è capitato. Una piccola ispirazione che si è spenta nello spazio di poche frasi. Poi mi è capitato pure di scrivere per esorcizzare uno stato d'animo di merda - devo dire che funziona. - Ma credo soprattutto nella scrittura come un fare. Un fare artigiano, una tecnica, una pratica. Allora bisogna mettersi lì e fare esercizio. E' anche una cosa faticosa, a volte - ma non credo neanche alla storia dello scrittore tormentato, sottoposto al supplizio della scrittura, per piacere! - Niente, esercizio dopo esercizio diventi pratico... poi, per carità, puoi scrivere bene e dire solo delle cagate. E difatti la tecnica dovrebbe unirsi al genio (è un termine romantico, lo so, ma serve giusto per dare un'idea del concetto), al quid in più che certi ce l'hanno, certi altri manco se pregano. Il genio non è l'ispirazione che viene dall'alto, bussa alla porta della tua cameretta mentre dormi, ti parla mentre sei in uno stato allucinato post marijuana o conversa amabilmente con te dopo una buona bottiglia di vino. Il genio ce l'ha chi vive e osserva e capisce. E legge e capisce. E capendo - capire, non so se s'è notato, è termine chiave - sa cosa scrivere. Allora, a 'sto punto, con la tecnica e il genio che si mescolano, il come scrivere che si unisce al cosa scrivere, nasce l'arte. Per dire che se lo scrittore è chi c'ha queste due cose, la tecnica e il genio appunto, bene, ecco perché io non lo sono. E intanto faccio esercizio, però.
 
Volevo dire un'altra roba, anche - eeh, mi dispiace... ma siete sempre in tempo per la moka o la doccia. - Volevo dire: è normale questo senso di imbarazzo? Cioè tu scrivi un raccontino poi, cazzo, qualcuno che non è un tuo amico dice ok, mi piace, penso che te lo pubblicheremo sul nostro blog. Tu che prima l'avevi già mandato a un'altra rivista on-line che non t'aveva detto proprio niente, manco che faceva cagare. Tu che ti eri rassegnata che anche questi altri a cui l'avevi mandato poi, il racconto, non ti avrebbero risposto - e in questo caso meglio non fidarsi del proverbio chi tace acconsente. - Dunque tu che sei lì che ormai pensi che il racconto faccia cagare. Ci hai trovato proprio un sacco di difetti e comincia a disgustarti - questo sì che è credere nelle proprie capacità! Però ricordate che io mi ero imposta di scrivere... insomma, poteva essere la tattica più sbagliata! - Poi niente, dopo una settimana - che ormai sei quasi contenta che nessuno abbia risposto alla tua mail+racconto, che sei proprio convinta non valga più di una cicca -, ecco dopo una settimana (per giunta di sabato mattina - e chi scrive mail di sabato mattina? -) ti arriva la mail che il tuo racconto, perdio, a qualcuno è piaciuto. Dici Meeeeeeerdaaaa!!! Sei euforica di botto. Poi dici Cazzo, ma a me non piace piuuuuù! Sei incasinata. Va bene, dici, lasciamolo pubblicare, non posso passare sempre per schizofrenica. Vuol dire che si può migliorare, no? Comunque quest'ultima roba del migliorare, mi rendo conto, è un po' una cosa paracula. Io ho sofferto, lo ammetto, di senso di colpa. Di aver lasciato pubblicare un racconto che non mi piace più. Il primo, per giunta! Cioè quello che sarà sempre il mio esordio forever. Però cazzo, mica mi hanno pagato. Non è prostituzione letteraria alla fine! Mi è anche venuta in mente tutta la filippica di Calvino - son modesta a pensare a Calvino, lo so! - all'inizio della riedizione del Sentiero dei Nidi di Ragno. Tutta la storia del rileggere il suo primo libro e di come lo vedeva poi... Son cose comuni, alla fine. Il rigetto per un proprio lavoro. Il figlio bastardo. Chissà se dopo nove mesi che una roba ti è cresciuta in pancia provi un po' di rigetto... Ahah, sì, è una battuta di pessimo gusto. Che poi io c'ho messo due giorni, mica nove mesi, a scrivere 'sto benedetto racconto (più la revisione, d'accordo). Niente, comunque devo dire che ho fatto un po' fatica a rileggerlo on-line. Tipo il giorno dopo, ci sono riuscita. E ai miei devo ancora dire dove poterlo leggere. Però sanno che c'è. Anch'io so che c'è. Vedrò di superarla!    

mercoledì 6 febbraio 2013

I dì d'la MerLa

Chissà se i giorni della merla esistono in tutta Italia. Un po' meno di due settimane fa (che erano appunto i giorni della merla – l’ho appena scoperto, ma questo si capirà più avanti nel corso della storia –) me lo ripeteva sempre la mamma che sua figlia la aiuto a fare i compiti. Arrivavo e sulla porta mi diceva «Mamma mia, Ely – mi chiama così, il perché devo ancora capirlo, che me mi sembra tanto il diminutivo di Elisa, non di Eleonora, che poi, Elisa dico, tra l’altro, sarebbe mia cugina, ma la mamma della figlia che la aiuto a studiare mica lo sa e comunque mi chiama Ely, con la ‘y’ proprio finale, perché quando mi paga mi mette i soldi in una busta che sopra c’è scritto Eleonora di solito, ma invece l’ultima volta c’era scritto Ely anzi Elly  con una ‘l’ in più aggiunta dopo dalla bimba che invece lei mi chiama Elly con due ‘l’, ma sempre con la ‘y’ finale come attestano i numerosi messaggini che mi manda sul cellulare facendomi venire il nervoso ma questo non è bello da parte mia, cioè che mi venga il nervoso, perché credo che la bimba che la aiuto coi compiti non abbia molte amiche e forse crede che io sia un po’ sua amica e allora io provo a non farmi più venire i due minuti quando mi manda 10 messaggi in fila –, che freddo, sono proprio i giorni della merla!» mi diceva la mamma che sua figlia la aiuto a studiare quando ero sulla porta di casa sua più o meno due settimane fa. E bisogna dire che questa signora è ceca (non cIeca, con la ‘i’, ma ceca, senza ‘i’, cioè della Repubblica Ceca). Allora insomma mi sono detta che sicuramente è un modo di dire che ha sentito da suo marito (che è italiano) che tra l’altro quelle volte che l’ho visto quando arriva a casa dopo il lavoro – che spesso io e la bambina stiamo ancora facendo i compiti perché lei non è proprio veloce ma anche qui non voglio essere insensibile, dico solo che insomma non è Copernico e, se per questo, neanche Tolomeo che pure se aveva detto che la Terra era al centro dell’universo, comunque ne aveva dimostrata di fantasia e di spirito antropocentrico! –, dicevo, quelle volte che arriva a casa il marito, che sua moglie è ceca e la loro figlia la aiuto a studiare, quell’uomo lì tutte le volte che lo vedo mi dà sempre l’impressione di essere uno di quelli che parla tutto il tempo per modi di dire e proverbi e la Irma lo diceva sempre e mio nonno non aveva tante balle – però che tutte queste cose le dice in dialetto. Per cui la storia dei giorni della merla molto probabilmente non è paneuropea. Molto probabilmente il padre della bambina l’avrà ripetuta in continuazione finché la moglie nonché madre della bambina che la aiuto a fare i compiti l’avrà ripetuta a me. Allora mi rimane il mio dubbio circa i confini geografici di questa diceria della merla. Tutta Italia o solo qui in zona – che poi sarebbe la bassa reggiana –? Eeh lo so anch’io che ci sono dubbi ben più grossi, o più gravi, o esistenziali, o amletici, o che dir si voglia, ma me stasera – che adesso sono le undici e mezza – m'è toccato questo. E non è che non ci dormirò stanotte, però mi è venuto da pensarci, ecco. Può anche essere che se lo chiedo a Google in breve svelerò l’arcano. Solo che adesso mi è venuto in mente che volevo dire un’altra cosa. Cioè sempre sui giorni della merla, però un’altra cosa che non riguarda l’Italia e se i giorni della merla esistono in tutta Italia o solo a Reggio Emilia e provincia. Infatti volevo dire che io ho sentito parlare di questi giorni della merla fin da quando ero molto piccola. E ero piccola davvero perché mi ricordo che mio nonno dava l’annuncio che erano arrivati i dì d’la merla e io capivo che erano arrivati i dì d’la merda. Mi è rimasto impresso proprio perché mi sembrava una roba impossibile che mio nonno dicesse merda così serenamente, senza un apparente motivo o senza un contesto logico. I giorni della merda. Ero piccola ma che qualcosa non funzionasse ci arrivavo. Allora chiedevo di ripetere e tornavo a capire che erano arrivati i dì d’la merda. Dopo smettevo di chiedere che non volevo fare quella che non capisce mai il dialetto e trotterellavo via non so con quale espressione, non ricordo. Poi dopo non so a che età ho capito che si trattava di merla e non di merda. Fatto sta che l’ho capito e insieme devo aver recepito anche che si tratta dei giorni più freddi dell’anno. Quelli che è bello avere un camino. O un Woolrich. O bersi una bottiglia di vino. Quelli che l’amore non basta come termosifone. Eccetera. Il fatto è che non mi ricordavo mai quando fossero ’sti giorni. Ok d’inverno, ma quando di preciso? Qualcuno – in questo caso la mamma della bimba che la aiuto a fare i compiti – me li annuncia ogni anno – purtroppo mio nonno non più perché è morto ma comunque lo penso spesso lo stesso – ma puntuale l’anno dopo non mi ricordo quando devono arrivare di preciso. Per cui i giorni della merla sono un momento imprecisato dell’inverno, quello più freddo, che quando arriva c’è sempre una voce – non più quella di mio nonno che purtroppo è morto ma comunque gli voglio un gran bene lo stesso e lo penso direi tutti i giorni – che dice che siamo nei giorni della merla. Finora. Stasera infatti ho scoperto la storia dei giorni della merla. E dunque un modo infallibile per ricordarmi sempre – per tutti i prossimi venturi anni finché non morirò o finché non sopraggiungerà la demenza senile o qualche altra brutta malattia per cui si perdono le facoltà mentali – dicevo, per ricordarmi sempre quando sono di preciso i dì d’la merla (e non d’la merda). Allora c’è questa leggenda che dice che i merli erano in origine tutti bianci – che tra l’altro esiste davvero anche il merlo bianco, becco iride e zampe rosa, solo che è raro –. Tra tutti gli antenati bianchi dei merli, però, c’era una volta questa famiglia fatta da papà merlo, mamma merlo, e tre figlioletti merli. Alla fine di Gennaio – che la leggenda dice che finché i merli eran bianchi Gennaio c’aveva solo 28 giorni –, c’era il sole e papà merlo decide che è il momento giusto per andare a far provviste. Intanto che papà merlo è fuori, mamma merlo esce dal nido tutta gaia cantando perché c’è il sole. E canta che ti canta mamma merlo si fa beffe di Gennaio che ormai è finito insieme alle sue giornate fredde. Allora Gennaio se la prende e chiede a Febbraio tre dei sui giorni. Manco a dirlo Febbraio accetta e bam! Gennaio ne ha 31 – di giorni – e Febbraio 28. Dei suoi nuovi giorni Gennaio ne fa una ghiacciaia: manda la temperatura sotto zero, la neve e il gelo. Allora mamma merlo – papà merlo è ancora in giro a cercar cibo – vede del fumo che esce da un camino e decide di trasferirsi sul comignolo coi tre merletti. Il fumo giustamente annerisce le loro penne e da quel momento i merli sono neri. Oltre che sempre da quel momento Gennaio ha 31 giorni e i suoi ultimi tre sono i più freddi dell’anno e sono chiamati i giorni della merla.


mercoledì 23 gennaio 2013

Potenziali stati di benessere che collassano all'uscita


    Io quando compro libri sono felice. Mi faccio tutto il giro della libreria – anche se so già cosa andrò a comprare, massimo sono indecisa tra due, tre libri... allora li sfoglio un po’ poi decido... neanche escluso che li compri tutti e tre... poi insomma purtroppo molto spesso tutto si riduce all’ampiezza del portafoglio, ovviamente – comunque dicevo che mi faccio lo stesso il tour completo. Da qualche tempo si parte proprio dalla vetrina. Voglio vedere se c’è il libraio coraggioso che caccia in bella vista qualcosa di più dei soliti Mondadori Rizzoli Einaudi e via dicendo. Che poi me li compro anch’io i Mondadori ecc, però mi prende già un sorriso se dietro il vetro vedo, per dire, un Minimum fax. Bene allora poi si entra e si fa il giro. Certe parti con più attenzione, certe altre più veloci. Tipo il settore dei gialli, per dire, non mi prende tanto. Eh lo so, devo fare la bastiana contraria anche qui. Ma l’unico giallo che mi ha fatto cambiare idea sui gialli è un giallo che poi non è neanche un giallo canonico (che poi forse è per questo che mi è piaciuto, sarebbe anche facile da dedurre), cioè per la critica forse è quello che si dice un giallo suis generis. E per farla breve è un capolavoro e pace, “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”. Poi adesso che ci penso mi è venuto in mente che c’è anche un altro giallo che avevo letto tipo a dieci undici o dodici anni e che il titolo me lo ricordo ancora per cui mi era piaciuto, insomma. “La morte arriva per posta”. Mi ricordo anche un po’ la trama e la copertina. Comunque poi non c’è stato feeling con i gialli. Per la verità neanche con i romanzi rosa. Forse i colori abbinati alla letteratura non fanno per me, non saprei.

    Allora di solito passo veloce in prossimità del reparto gialli. Anche fantasy thriller vampiri alieni di solito ci passo davanti senza fermarmi. – Devo dire una cosa che c’entra poco e niente: un paio di settimane fa ho preso un libro in biblioteca che, stranamente, era etichettato come thriller. Mi son chiesta anche il motivo perché dentro di me non avevo proprio ipotizzato che potesse mai trattarsi di un thriller. Comunque poi l’ho letto e difatti per me del thriller c’aveva solo l’etichetta piazzata da qualche d’uno più o meno a caso –. Dev’essere che in me scatta qualcosa davanti alle catalogazioni. Un po’ come la faccenda degli -ismi (Positivismo, Romanticismo, Pessimismo, Decadentismo e così via andando sempre in peggio fino a finire a Ottimismo che è un male di vivere) che studi al liceo per poi sentirti dire che è una cazzata all’università. Io devo aver sposato la tesi dell’università inconsciamente già da prima, suppongo. Così se trovavo una targhetta sopra a fianco o davanti a uno scaffale lo evitavo, bo non saprei.

    Invece poi passo per bene in rassegna la narrativa e la poesia. Che poi la poesia si fa presto. Può anche essere del tutto missing mentre se c’è, il reparto poesia, in genere son poche mensole che includono tutto, dal latino alla nostrana alla mondiale di tutti i secoli dei secoli amen. E la cosa è pure strana perché noi, intendo noi Italiani, nasciamo poeti. E – purtroppo – c’è un momento della vita che tutti abbiamo scritto almeno una poesia, un verso, una cazzo di rima, per dio, tutti l’abbiamo scritta! E c’è almeno un giorno della nostra esistenza che tutti ci siamo sentiti poeta. Eppure gli scaffali poetici non sono qui a testimoniarlo. – Per certi versi (ahah) è anche un bene. Che alcuni di noi è proprio meglio che non si sentano poeti. E manco prosatori. Comunque pare che oramai tutti si possa parlare o, peggio ancora, scrivere... le parole sono proprio troppo, abusivamente, democratiche. –

    Ultimamente, sempre che esista, mi soffermo un po’ anche dai fumetti (ancora più bistrattati della poesia). Poi mi faccio anche un giretto nella zona kids. Mi piace e mi vengono i ricordi belli.

    Certo poi alla fine vado alla cassa. Sono felice, ho i miei libri in mano (o il mio libro se è uno, chiaramente). Ora: perché tu che li vendi, ’sti libri, devi avere quella faccia da culo lì? Dico, manco avessi comprato la roba di Volo, Moccia, calciatori cuochi show-women, le sfumature gialle rosse e verdone... Sto comprando un libro che tu che lavori in libreria, per dio, devi sapere cosa c’è dentro, devi sapere che è LIBRO e non poltiglia di cellulosa scarabocchiata. Non dico che devi farmi i complimenti per la scelta (non penso che ci crederei), ma DEVI farmi un sorriso... cazzo, potresti augurarmi buona lettura! Invece te ne stai lì col tuo muso, batti uno scontrino, ti giri a dire una roba a quell’altra tua collega, mi allunghi il resto senza manco guardarmi in faccia. E non siamo in una mega libreria del centro di Milano Roma Torino. Non sei una cazzo di addetta alla cassa che tanto valeva lavorare al supermercato. Siamo in una piccola libreria di un piccolo centro. Voglio uscire di lì col mio bottino e il mio stato di gioia. Con 32 denti in vista e le rughe intorno alla bocca. Voglio che tu mi chieda se mi serve una busta ecologica, capito? Io non posso mettere il libro in borsa che mi si rovina tutto.

sabato 29 dicembre 2012

Per una fenomenologia posticcia delle fans caposseliane

    C’era una volta Musico. Andava ai concerti perché se ne intendeva. Gli studi o il talento naturale, cose così. E allora niente, Musico ne capiva di tutta la musica, di tutti gli spartiti, di tutte le note, di tutti i musicisti, i cantautori, i concertisti, i direttori d’orchestra, eccetera eccetera. Conosceva anche tutti gli strumenti, naturalmente, perfino quelli che adesso dovrei cercare il loro nome su Google perché io, invece, non li so. Perciò Musico era dunque un grande intenditore della musica per intero, aveva, come si dice, una visione rotonda e completa del panorama musicale presente, passato e, io lo credo, anche futuro. E andava ai concerti. Molti e differenti. Da solo o con amici. Allora capita che Musico va una sera a sentire Vinicio Capossela. Che poi, tra l’altro, c’era già andato altre volte. Non è tanto che gli fosse scoppiata la passione per il cantautore (che anzi, a essere sincero, lo trovava piuttosto stonato), ma non gli dispiaceva, via. Poi voleva trovare la conferma di certi suoi pensieri circa la singolare genìa delle spettatrici caposseliane[1]. Insomma Musico va, si ascolta il concerto poi, come sua consuetudine (che era anche un discreto dongiovanni, benché intimamente misogino), adocchia una promettente fanciulla.
 
    Le fa: ‹‹Ti è piaciuto?››
    ‹‹Che?››
    ‹‹Il concerto. Ti è piaciuto?››
    Si gira. Lo guarda ora per la prima volta negli occhi. Increspa il sopracciglio. ‹‹S-sì››.
    ‹‹Anche a me!›› (piglio convinto). È carina: gonna lunga e sandaletto ma niente piercing o rasta; quell’incrocio tra figlia dei fiori e ragazza-per-bene che ti fa sperare in un decente proseguo della conversazione. ‹‹È da molto che ascolti Vinicio?›› ‹‹S-sì... abbastanza››. Niente da fare, forse ti sei sbagliato. ‹‹Che ti piace di lui?›› ‹‹È un poeta!›› (quasi trafelata, ma per la prima volta, senza timidezza).

    Eccoci al dunque, il vademecum dei fans di Capossela deve recitarlo alla prima pagina: osannalo in quanto Poeta e Maestro. Evidentemente in pochi si sono poi spinti oltre quella pagina, che una spiegazione più estesa della loro venerazione per il cantautore mica te la sanno dare. ‹‹Cioè?›› Ti guardano allibiti come se steste parlando proprio due lingue diverse e ribadiscono il concetto, a mo’ di tautologia: ‹‹Un poeta!››. Al ché meglio abbandonare il campo, desistere prima di addentrarti in noiose quanto inutili diatribe sul concetto di poesia. Annuisci, ‹‹Certooo! La confusione, sai... un poeta, sicuro!››. Sorridi, giri i tacchi e cambi aria.
 
    Si ripeteva così, stessa trafila, a tutti i concerti caposseliani. Musico si riprometteva ogni volta di non tornarci, o quantomeno di non provarci più con le sue fans.


[1] Ci rendiamo conto dell’assoluta obsolescenza di un concetto quale genìa, o razza, o simili. Ce ne scusiamo, ma queste sono le idee del protagonista di questa storia, non le nostre. D’altra parte anche il termine spettatore, oggi, non si addice tanto alla realtà dei fatti. Meglio fan e, per esser leali nei confronti del nostro amato lettore, parleremo d’ora in poi di fan, appunto.


venerdì 28 dicembre 2012

Corvo

Carissimo corvo,
e così sei nero e torvo,
un po' per stima
un po' per rima.
 
     Eppure ti ricordi, corvo? Eri uccello oracolare all'inizio, caro alle sibille e alle indovine, in tutte le tradizioni profeta e chiaroveggente. Difatti, quando i Greci hanno avuto la meglio nel Mediterraneo, ti hanno agganciato al loro dio premonitore per eccellenza, Apollo. Ma poteva, Il dio del Sole, avere un uccellaccio nero come simbolo e messaggero? Evidente che no. Secondo il mito, eccoti allora un bel piumaggio bianco e candido. Poi è venuto il tempo della tresca di Apollo con la bella Coronide e poi ancora il dio, sempre lui, dovendo assentarsi per un poco, ti ha messo a guardia della fanciulla stessa. Tu l'hai vista fra le braccia di un altro, l'hai rivelato al tuo padrone e ne hai ricevuto in cambio una maledizione: Apollo, per la rabbia, ti ha fatto la tintura e ti sei ritrovato tutto nero. Sei diventato l'uccello del malaugurio, corvo, porti brutte notizie. E c'è niente da dire, la cattiva sorte non fa piacere a nessuno conoscerla, né agli dei né agli uomini (che son poi fatti a loro immagine e somiglianza).
    Tu poi corvo te la vai proprio a cercare. Che oltre che nero, fai anche un verso cacofonico e giri attorno alle carogne e spilucchi gli occhi delle altre bestie. Per non parlare di Esopo, che nella sua favola fai proprio la figura del becco (a voler rimanere in tema di volatili, morali e proverbi). Coi Romani non ti è andata molto meglio, che l'onomatopea del tuo verso, cra cra, è stata associata al cras, al domani, a chi rinvia sempre: sei diventato emblema del pigro e dell'indeciso. Eppure Plinio il Vecchio ti ammirava, forse per la facilità con cui l'uomo ti può addomesticare, se ti cattura giovane, che riesce pure a farti dire alcune parole.
    Anche nella Bibbia, corvo, non ti è andata tanto bene. Sei tra gli animali immondi dei quali è proibito cibarsi, considerato l'antitesi dell'immacolata colomba e un rapace inaffidabile, dopo il tuo disdicevole comportamento con Noè (che non sei più tornato all'arca dopo che ti aveva mandato a controllare il livello delle acque post-diluvio). Nero come il peccato, il tuo cra cra inteso come il costante rinvio del pentimento, il tuo cibo preferito i cadaveri... corvo, non potevi che simboleggiare il peccatore, il maligno, l'eretico. Ma Dio è troppo buono e lascia anche a te una via di scampo. Sono infatti dei corvi quelli che portano cibo ad Elia nel deserto, e sono i tuoi piccoli che gracidano al Cielo per esser sfamati. Allora corvo ecco che rappresenti anche la schiera dei peccatori pentiti e quella dei neo convertiti.
    Ma il riscatto vero e proprio viene dalla mitologia nordica. Qui, per esempio, col tuo volo indichi dove posizionare l'esercito per la vittoria; se segui un guerriero, sei segno di buon auspicio; propizi la fondazione di nuove città. Poi la parte più importante la fai in Svezia, che lì il dio Odino, Signore dei corvi, alle volte assumeva proprio le tue sembianze per mostrarsi in pubblico. Tra l'altro c'è una figura, su un elmo, che c'è proprio Odino che davanti e dietro c'ha un corvo. E quello davanti è Huginn, pensiero, quello dietro la testa di Odino è il corvo Muninn, memoria. E questi due, Huginn e Muninn, volavano tutto il giorno per il mondo e, alla sera, spifferavano tutto a Odino. Si vede, corvo, che ce l'hai un po' nel sangue di fare la spia, che già con Coronide e Apollo... Me poi adesso mi viene in mente di Malefica, la strega della Bella Addormentata, che anche lei c'aveva proprio un corvo che attraverso il suo occhio vedeva tutto quello che succedeva.

    Niente, io alla fine me lo devo chiedere: com'è che così nero, col tuo brutto verso e con tanto che ti mangi le carogne... com'è che sei stato associato a divinità solari e/o così importanti? Com'è che c'hai tutte queste proprietà profetiche? Allora forse, mi son detta, è perché becchi gli occhi delle altre bestie... e invece il tuo occhio vale di più, ci vede meglio, tipo. Poi c'è il fatto che puoi dire delle parole... Oppure è per esorcizzarti, chessò. Dopo devo dire che ho anche letto una roba interessante: che il nero, oltre che delle tenebre e della morte, è pure il colore del ventre materno e della terra che preparano la germinazione. Allora tipo da te può nascere il destino, qualche profezia... Così avrebbe un po' più senso, credo. Comunque me mi sei simpatico, corvo!

sabato 30 giugno 2012

Secondo incontro: Jerome David Salinger

C'è un'altra voce oggi che proviene dalla pancia del mammifero, e che suona più o meno così:
    Allora la vecchia Phoebe disse qualcosa, ma non riuscii a sentirla. Aveva l’angolo della bocca schiacciato contro il cuscino e non riuscii sentirla.
    – Come? – dissi. – Tira via la bocca di là. Non riesco a sentirti, se tieni la bocca in quel modo.
    – A te non ti piace niente di quello che succede.
    Quando disse così mi fece sentire ancora più depresso.
    – Ma sì che mi piace! Sì che mi piace! Naturale che mi piace. Non dire così. Perché diavolo dici così?
    – Perché non ti piace. Non ti piace nessuna scuola. Non ti piacciono un milione di cose. Non ti piace.
    – Invece sì! Qui hai torto, è proprio qui che hai torto! Perché diavolo devi dire così? – dissi. Ragazzi, quanto mi deprimeva.
    – Perché non ti piace, – disse. – Dinne una.
    – Una? Una cosa che mi piace? – dissi. – D’accordo.
    Il guaio era che non riuscivo a concentrarmi troppo. È difficile concentrarsi, certe volte.
    – Una cosa che mi piace molto, vuoi dire? – le domandai.
   Ma lei non mi rispose. Stava tutta scontorta e capovolta dall’altra parte del letto. A mille miglia di distanza. – Avanti, rispondimi, – dissi. – Una cosa che mi piace molto, o che mi piace soltanto?
    – Che ti piace molto.
    – Benissimo, – dissi. Ma il guaio era che non riuscivo a concentrarmi.
[...]
    – Come? – dissi alla vecchia Phoebe. Mi aveva detto qualcosa, ma non l’avevo sentita.
    – Non riesci a trovare nemmeno una cosa.
    – Ma sì. Ma sì.
    – Be’, allora dilla.
    – Mi piace Allie, – dissi. – E mi piace fare quello che sto facendo adesso. Stare seduto qui con te a parlare, e a pensare alle cose, e…
    – Allie è morto. Dici sempre la stessa cosa! Se uno è morto eccetera eccetera e sta in cielo, non è veramente…
    – Lo so che è morto! Credi che non lo sappia? Ma mi può ancora piacere, no? Non è mica che uno non ti piace più solo perché è morto, Dio santo, specie se è mille volte meglio della gente viva che conosci e compagnia bella.
    La vecchia Phoebe non disse niente. Quando non trova niente da dire, non dice più mezza dannata parola.
    – Ad ogni modo, mi piace ora, – dissi. – Proprio adesso, voglio dire. Stare seduto qui con te a fare quattro chiacchiere e a scherzare...
    – Questa non è una vera cosa!
    – È una vera cosa eccome! Certo che lo è. Perché diavolo non lo è? La gente non crede mai che una cosa sia una vera cosa. Ne ho arcipiene le maledette tasche.
    –Smettila di bestemmiare. Va bene, dimmi qualcos’altro. Dimmi che cosa ti piacerebbe essere. Come uno scienziato. O un avvocato o qualche cosa.
    – Non potrei essere uno scienziato. In scienze sono una schiappa.
    – Be’, un avvocato, come papà e compagnia bella.
    – Gli avvocati sono in gamba, direi, ma non mi attira, – dissi. – Voglio dire, sono in gamba se vanno in giro tutto il tempo a salvare la vita degli innocenti e roba simile, ma se sei avvocato queste cose non le fai. Tutto quello che fai è accumulare soldi giocare a golf giocare a bridge comprare macchine bere martini e aver l’aria dell’alto papavero. E del resto! Anche se te ne vai in giro a salvare la vita della gente e via discorrendo, chi ti dice che lo fai perché vuoi veramente salvare la vita della gente, e non perché in realtà quello che vuoi è soltanto di essere un fenomeno di avvocato, con tutti quanti che ti dànno manate sulla schiena e ti fanno le congratulazioni in tribunale quando il maledetto processo è finito e i giornalisti e tutti quanti, come si vede in quegli sporchi film? Chi ti dice che non sei uno sbruffone? Non lo sapresti mai, ecco il guaio.
    Non sono ben sicuro che la vecchia Phoebe capisse di che diavolo parlavo. Voglio dire, in fondo non è che una bambina e via discorrendo. Però stava a sentire, almeno. Se qualcuno almeno vi sta a sentire non è tanto brutto.
    – Papà ti ammazza. Vedrai che ti ammazza, disse.
    Ma io non la sentivo. Stavo pensando a un’altra cosa – una cosa pazzesca. – Sai cosa mi piacerebbe fare? – dissi. – Sai cosa mi piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira, voglio dire.
    – Cosa? Smettila di bestemmiare.
    – Sai quella canzone che fa ‹‹Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno››? Io vorrei...
    – Dice ‹‹Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno››, – disse la vecchia Phoebe. – È una poesia. Di Robert Burns.
    Lo so che è una poesia di Robert Burns.
    Però aveva ragione lei. Dice proprio ‹‹Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno››. Ma allora non lo sapevo.
    – Credevo che dicesse ‹‹E ti prende al volo qualcuno››, – dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.
J. D. Salinger, Il giovane Holden
 E' buffo, questo passo mi parla di me. Di me seduta in questa balena a parlare con dei morti che sono davvero più interessanti dei vivi. Ridimensiono: di buona parte dei "vivi". Resterebbe poi da chiarirsi sul concetto di vita, quanto mai arbitrario e soggettivo. Vivi e lascia vivere, naturalmente. Ciascuno come crede, purché rispetti le leggi e paghi le tasse, credo. Quando tutto si riduce a questo la storia diventa infinitamente più semplice. Vievere significa fare bene un mestiere: fare bene l'avvocato e lo scienziato, per esempio. Porti a casa un buono stipendio, ti paghi l'abito firmato e le vacanze nelle isole tropicali. Magari ci hai anche dei figli e li mandi alle scuole più prestigiose...
Ma se vivere significasse per qualcuno anche prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dall'orlo di un dirupo pazzesco? Io credo che sia così. Viviamo così. Tutti in competizione (competizione rigorosamente senza regole: società globale e liberissimo mercato), tutti in corsa, tutti pronti a scannarci...  e prima o poi ci arriveremo all'orlo di quel dirupo... e allora sarà bene che ci sia qualche volenteroso pronto ad acchiapparci al volo. Qualcuno che ci ricordi che la vita non è solo arrivare primi e portare a casa il jackpot. Qualcuno che ci dica di respirare, che si può e si deve rallentre. Rallentare il passo, regolarlo sul ritmo lento del pensiero e dello sguardo. Vedere e non capire. E allora cercare, domandare, trovare le risposte. E poi perderle e ancora cercare. E aspettare e sperimentare l'assenza e capire. Per poi non capire di nuovo. E partire e tornare....


"Canciòn de las simples cosas", trad. in italiano da Vinicio

lunedì 5 marzo 2012

Libri, vino e libertà (appunti)

Liber è colui che nasce libero. Ma liber, in latino, è anche il libro. Poi c'è Liber, il dio italico dei frutti, presto assimilato al collega greco Bacco. 
Libertà, libri e vino. Non so perché stasera mi vengano in testa queste relazioni. Poi penso al "Marinai, profeti e balene" di Vinicio... la letteratura è protagonista indiscussa. Così pure il vino, con Polifemo che diventa Vinocolo, i marinai che chiedono rhum, Pryntyl che si ubriaca a furia di Spritz, Calipso che irretisce nel suo abbraccio di ambrosia a mezzo di vino e amore... E la libertà? Ma che cos'è la libertà? La libertà dell'oceano di rollare le proprie onde oilalà. La libertà di Achab di ossessionarsi della balena bianca. La libertà di una donna di farsi ingannare dall'attesa. La libertà di Ulisse di non trovare la via del ritorno. La libertà di Lord Jim di non venire a patti con la propria coscienza...
Forse si è liberi davvero quando si rispetta la propria essenza. Se e quando la si conosce. Libri e vino potrebbero essere strumenti per appropriarsi di questo tipo di libertà.